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Anno XXV - n. 2 - giugno 2000

 

AA. VV.

 

Se il Giubileo si fa Vangelo ...

 

Ediz. Cittadella, Assisi, 1999

 

 

Fra la selva di testi sul Giubileo in cui è arduo districarsi, degno di rilievo risulta Se il Giubileo si fa Vangelo ... che, già nel titolo, suggerisce un taglio che non è certo celebrativo o prettamente documentaristico o storico ma piuttosto indica nel pellegrinaggio esistenziale il percorso che suppone un senso. L’uomo cerca la pienezza di vita e di felicità, l’Assoluto, per questo si muove e cammina ... il pellegrinaggio è cosa antica quanto l’uomo.

Il Giubileo vuole dirci la direzione sensata di quel cammino che l’uomo vuol fare per raggiungere (come dicevano i romei del primo giubileo del 1300 con papa Bonifacio) una vita senza colpa e senza pene. E questo è indicato in Levitico 25 e poi in Luca, in particolare, perché questo evangelista ha scritto un Vangelo che è un pellegrinaggio da Nazareth a Gerusalemme. Tutto il Vangelo indica questo cammino per compiere l’anno di grazia del Signore, in modo che la parola di Dio si incarni sulla terra e questa, nella sua totalità, partecipi del Regno di Dio ... perché il deserto torni ad essere giardino.

Mi piace applicare al Giubileo quanto A. J. Heschel dice del sabato: “A differenza del giorno dell’espiazione, il sabato non ha finalità esclusivamente spirituali. E’ un giorno dall’anima come del corpo; il benessere e il piacere sono parte integrante dell’osservanza del sabato. La benedizione deve comprendere l’uomo nella sua interezza, con tutte le sue facoltà” (cfr. Il sabato, Ed. Rusconi, Milano 1972, pag. 31). Questo radicamento del Giubileo nella totalità umana in tutti i suoi passaggi è la nota peculiare del nostro testo che merita di essere evidenziata perché aiuta a superare le cerimonie, ad andare oltre gli incensi e i sacrifici.

Se si vuole, in qualche modo, entrare in questo discorso del Giubileo come risposta sociale, bisogna ricondursi alla matrice biblica, e, se possibile, ancorarla al “bisogno dell’uomo”, al “grido del povero”, alla “sofferenza del popolo”: chi convoca è il povero con la sua esigenza di giustizia e non una data convenzionale. Allora Giubileo come umanizzazione di ciò che è disumano (non avere terra / sfida della riforma agraria), come remissione dei debiti (macroscopico quello che affama senza speranza molti Paesi del Terzo mondo), come utilizzo delle risorse naturali (che non può diventare saccheggio scomposto e indiscriminato), come annuncio di liberazione anche a quella categoria di persone che “ci interpellano ancor più profondamente come cristiani inseriti in una comunità: i divorziati risposati e gli ex preti” che si trovano in una situazione di emarginazione nella Chiesa.

Se in campo internazionale il Giubileo solleva problemi cruciali, ancor più in radice pone il problema sul nostro modo di essere Chiesa. Per Israele la solidarietà verso i poveri, gli emarginati, gli schiavi era come il riflesso dei rapporti nuovi che l’Alleanza aveva creato all’interno del popolo. I membri della prima comunità cristiana di Gerusalemme ritenevano di essere stati chiamati a vivere fino in fondo le prescrizioni dell’anno sabbatico (Atti 2,42-47). Si pone dunque una domanda cruciale: il nostro essere Chiesa crea tra noi rapporti nuovi tali d scalfire il nostro individualismo? Le nostre strutture ecclesiali sono strutture di comunione e non favoriscono piuttosto la consumazione individuale di beni sacramentali senza incidere nella nostra vita al di là dei buoni (ma spesso marginali) sentimenti di compassione e di umanità? La mancanza di un vero senso comunitario, quale è presupposto dal Giubileo, rappresenta forse la causa di tanti errori del passato, di cui si chiede spesso perdono senza individuarne le cause, con il pericolo di ripeterli ancora nel presente e nel futuro.

Maria Rosaria Gavina

   
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