Anno XXVIII - n. 1 - marzo 2003
Wanda TommasiEtty Hillesum. L’intelligenza del cuoreEdizioni Messaggero Padova, pp. 158
Una breve vita nella pienezza di senso: la vita di Etty Hillesum. La conosciamo grazie a un diario, che Etty inizia nel 1941 e alle lettere, scritte fra il 1942 e il settembre 1943, durante la sua permanenza nel campo di Westerbork in Olanda. Tre mesi dopo il trasferimento ad Auschwitz, a 29 anni, muore. Era il 30 novembre 1943. Wanda Tommasi, in un libro-commento che si fa leggere come un romanzo, va alla ricerca dei doni preziosi che la vita di Etty Hillesum ci regala. “Un nutrimento per l’anima”, del quale la filosofa sente ora il bisogno di parlare ad altri attraversando il territorio della scrittura diaristica (Tommasi lavora sul fondo integrale) ed epistolare, consapevole delle difficoltà e dei rischi. “I testi che nutrono, come quelli di Etty Hillesum, si ha l’impressione di tradirli se, anziché esprimere gratitudine per la ricchezza che ci hanno donato, li si sottopone al filtro dell’interpretazione, del commento, della critica”. Sono parole di Wanda Tommasi all’inizio del suo lavoro, come un vademecum per non dimenticare che una scrittura così strettamente legata all’esistenza, come è quella di Etty, “invita chi legge a trarne ispirazione, a ricavarne insegnamenti per la propria vita, piuttosto che ad impegnarsi sul piano del confronto teorico […]”. Una vita vissuta nella pienezza di senso: Etty vede incarnata questa possibilità nel modo in cui il suo terapeuta Spear vive e insegna. Maestro amato con un amore che è per Etty cammino di trasformazione, di apertura al divino e al mondo. Verso questo orizzonte Etty tende per essere fino in fondo se stessa. Così deve patire il dolore della gelosia per giungere all’amore grande. Amore senza attaccamento che non va confuso con l’esperienza ascetica. Questa figura dell’amore senza attaccamento, vissuto nel corpo e nello spirito, oggi può insegnarci molte cose. A noi tutti, donne e uomini. Il libro di Wanda Tommasi è un’occasione, anche per chi ha già letto il Diario e le Lettere (Adelphi) di Etty Hillesum, per ripercorre con una guida intelligente la strada di questa donna terrestre e solare, amante della vita e della bellezza. Attenta a riconoscere la bellezza anche nella pozzanghera di un lager, capace di percepire il senso della vita anche quando la violenza della storia chiude le vite degli individui nella morsa dell’insensata distruttività. Delfina Lusiardi |
Anno XXVIII - n. 2 - giugno 2003
Carmine Di Sante
Lo straniero nella BibbiaSaggio sull’ospitalità
Edizioni Città Aperta, Troina (Enna) 2002, pp.236
Sono debitore a questo libro di una prospettiva radicalmente nuova che resta per me - detto per inciso e senza adulazione- una delle più stimolanti esperienze intellettuali. Si tratta, né più né meno, del superamento dell’orizzonte della reciprocità, in cui la relazione con l’altro resta sempre, tacitamente, una relazione di scambio governata dal bilanciamento dei costi con i benefici. E questo può verificarsi anche nella dimensione religiosa, se nell’accoglienza dell’altro si vede il modo di accumulare meriti in vista di un compenso, oppure se l’altro diventa lo strumento per affermare la mia giustizia o la mia bontà, lo specchio che mi restituisce un’immagine gratificante di me stesso. È qui, nella sottilissima linea di confine con l’altro-per-me e l’altro-per-sé, che si radica il grosso problema del fondamento, mentre in una prospettiva laica io sono l’imperativo morale di Kant o la responsabilità di Jonas. Ma in ogni caso, quando l’altro diventa l’”oggetto “di una obbligazione morale, rimane sempre irrisolta una fondamentale ambiguità. Probabilmente la relazione asimmetrica di cui parla Lèvinas – e al centro delle pagine di questo libro- può essere il superamento di questa ambiguità: l’altro è allora visto come lo strumento inatteso che ha bisogno della mia ospitalità e, nel lasciarsi accogliere e amare, mi libera dall’angoscia dell’insensato. C’è qui, in questa prospettiva a un tempo nuova e antica, la possibilità di fondare un rapporto con l’altro che sia il superamento dell’alienazione narcisistica e ciò vale sia all’interno di una esperienza religiosa che in un orizzonte puramente laico, poiché questa è una comune base antropologica. Domenico Basile |
Anno XXVIII - n. 3 - settembre 2003
Sintomi d’amore
a cura di Gabriella Mariotti
Meltemi editore, 2003, pag. 106
Se c’è qualcosa che non manca mai nel vasto mercato editoriale contemporaneo sono sicuramente i libri divulgativi sull’amore e sulla coppia. Si tratta perlopiù di testi “light”, scritti con un linguaggio psicologico e ai limiti della tautologia dal momento che non aggiungono pensiero né profondità all’ineffabile mistero dell’innamoramento e della relazione tra l’uomo e la donna. Fortunatamente non è questo il caso di sintomi d’amore, un testo scritto a più mani che nasce come frutto di osservazione e compartecipazione emotiva di casi clinici (nel testo, qua e là, vengono riportatii discorsi di pazienti in analisi) ma anche frutto di approfondimento teoretico (nella bibliografia sono presenti molti autori interessanti). Gli artefici del libro sono psicoanalisti che appartengono al gruppo degli Argonauti di Milano. Insieme riflettono ed insieme tracciano una interessante e sfaccettata fenomenologia e “sintomatologia” dell’amore nella contemporaneità. Il linguaggio e le griglie interpretative utilizzate dagli autori sono di impronta psicoanalitica anche se non mancano interessanti spunti filosofici ed esplicative, se pur brevi, immersioni nel campo della sociologia e dell’interculturalità. Apprendiamo, così, l’aspetto assolutamente metamorfico e cangiante della fenomenologia amorosa che muta con il variare dei contesti culturali di appartenenza e delle varie rappresentazioni sociali che si susseguono nel tempo, da risultare così paradossale parlare di un concetto universale e astratto di amore. Interessante, a questo riguardo, il capitolo sull’amore nelle culture, all’interno del quale l’autrice fa una breve analisi comparata di poesie d’amore scritte da autori provenienti da vari paesi per mostrare la polisemia di significatie quindi anche di gesti ed atteggiamenti di questa fondamentale dimensione relazionale. Scopriamo anche come, nella contemporaneità l’amore nell’accezione di vita di coppia diventi un approdo urgente e necessario per arginare l’angoscia di fronte alla flessibilità lavorativa e ad un’insicurezza diffusa di tipo sia materiale che esistenziale. I rischi, i “sintomi” di questo grosso investimento sono però molteplici, a cominciare dall’eccessiva idealizzazione dell’amato che ostacola il raggiungimento di un’autentica scoperta di sé e dell’altro. L’amore, sempre più marcato da un’intrinseca ambivalenza, diviene anche una solida e fragile difesa dal dolore intrapsichico e dalla solitudine. Difficile è allora accettare la possibilità che amare significhi anche lasciare andare colui che non ci ama più, pena il rischio di cadere addirittura in sintomatologie psicosomatiche che, all’eccesso, possono portare anche alla morte (come si vede nel recente film “Per sempre”). Che fare, allora? Che via intraprendere per riuscire davvero ad accogliere l’altro senza invaderlo né assediarlo? Una possibile risposta potrebbe essere quella della condivisione all’interno di un gruppo di pari, specialmente nel contesto di una psicoterapia di gruppo, dove insieme si mettono a confronto emozioni, introiezioni e proiezioni tossiche di modelli famigliari mai portati a consapevolezza. Un’altra via praticabile è anche quella di fare vuoto e silenzio dentro di sé per dare voce allasaggezza sottile del preconscio in un dolce andirivieni tra il riconoscimento dei propri bisogni e l’attenta presa in carico anche delle ragioni e dei bisogni affettivi ed emotivi di colui che ci sta accanto e del quale diciamo di essere innamorati. Ramona Parenzan |
Anno XXVIII - n. 4 - dicembre 2003
Vittorino Andreoli
Capire il dolore
Rizzoli , 2003, pp. 312
Tra le righe di questo saggio si dischiude un mistero sconvolgente: produce dolore chi sa anche dare gioia immensa. Attorno a questo tema scorrono fluidi i capitoli, spaccati sull'esperienza singolare del quotidiano, esperienza mai sola bensì condivisa. Il dolore non è mai definito ma descritto, decifrato. L’autore si sforza di connotarlo temporalmente nelle diverse fasi della vita, dall’infanzia alla senilità, geograficamente lo scova in quei luoghi definiti per eccellenza luoghi del dolore, quali i Gulag, gli ospedali, le carceri, gli ospizi. La mappa del dolore costeggia altresì vicoli bui quando cala il sipario e quando le luci del protagonismo delle mille maschere dell’esistenza divengono ombre. Ecco come una città, una casa diventano monumenti al dolore, effige per la memoria. La decifrazione avviene anche attraverso il riconoscimento del linguaggio strepitoso, sommesso e subliminale, sguardo, urlo, lacrime, verso, melodia. Uno psichiatra del dolore, senza camici e senza strumenti, che ascolta condivide e sistema, nel suo magazzino fatto di memoria di incontri tra il Sé psichiatra e l’altro Sé matto. Un testimone del dolore che soffre, voyeur che guarda il dolore con il timore di un abbraccio che non lasci respirare. Accanto al mistero l’autore connota un fremito, la speranza perché il dolore è evitabile, spetta all’uomo eluderlo e frenarlo. Il mondo deve allontanare il dolore inutile, quello che dipende da uno stile di vita modificabile, dal potere che si fa violenza. Il dolore è anzitutto fatto di carne e si lega all’esperienza della carne umana; è stato parte tanto della tragedia greca quanto del Barocco, assumendo le forme della sconfitta delle passioni o della beffa. Il dolore come espressione della coscienza, di un essere cosciente che si interroga sul senso del Sé e del mondo. Un Sé cosciente del proprio limite. L’io che si cimenta con le piccole sconfitte del quotidiano, che rendono gli uomini eroi, del nulla. Nel libro non si trovano aride teorie ma la ricerca di una solidarietà umana, comprendere il dolore significa compatirlo. Interiorizzando sensazioni, esperienza, sentimento si approda alla gioia. La gioia non è assenza di dolore, ma acquisizione del senso dell’essere. Gioia è sentire che c’è un proprio senso nel mondo che si lega alla propria sofferenza e a quella degli altri. Gioia è trovare nella memoria ciò che non c’è più, gioia è una costruzione che si compie momento per momento, passa dal dolore, lo riconosce e non lo scansa. Maura Cadei |